MASCHE, KALVINGRAD (ADN/ WALLACE RECORDS)
“La traccia di un disegno così sottile che nemmeno gli insetti riuscirebbero a masticare”: così recita, in inglese, il retro di copertina del disco d’esordio per Masche, dal canavese, provincia nord di Torino, tra Ivrea e la Val d’Aosta. Le masche erano le streghe di questa zona, e in effetti ha qualcosa di pericoloso ed eretico il suono del quintetto, un gruppo nuovo ma pieno di vecchie conoscenze per chi ha frequentato i margini più interessanti del nostro underground: Alessandro Cartolari a sax alto e baritono era con Anatrofobia (autori di vari dischi degnissimi di attenzione negli anni passati, la maggior parte di questi per la benemerita Wallace Records di Mirko Spino, che è della partita anche a questo giro), Valerio Zucca Paul alle elettroniche era nei 3eem, Diego Rosso (batteria) e Andrea Chiuni (basso e voce) erano in Ex-p, autori di un disco per la fratto9. Completa la formazione Cristina Trotto Gatta alla voce. Cosa suonano Masche? Una musica libera e rigorosa, che sfugge a definizioni precise, eclettica, visionaria, nitida, frammentata e feroce. Ombre di elettronica astratta, ruggini This Heat, un approccio free rock sempre sghembo e sorprendente, un mood minaccioso, nero, un groove inesorabile ma mai esplicito. Cinque tracce che mostrano una faccia diversa ogni volta che le ascolti, tra detriti del jazz più avventuroso e corrotto (nel senso migliore del termine), piogge acide, strutture mobili, flussi di coscienza, un grande senso del controllo e delle dinamiche e un’ottima scelta timbrica. Molto interessante l’uso della voce da parte della cantante, brava nel trovare i giusti spazi in una musica che poteva rivelarsi inospitale se affrontata con un approccio timido, e ottime le elettroniche che rimasticano quanto suonato dagli altri, lo espandono, lo sminuzzano e lo trasfigurano, in un continuo gioco di rimandi che disorienta rendendo l’ascolto un’esperienza sempre nuova. Inesorabile nel suo mettere gli accenti dove non li aspetteresti il basso, randagio e selvatico il sax effettato (che suona come una chitarra), lieve ed aerea la batteria, abile nel mettere virgole e aprire spazi in questa selva caotica ma non disordinata. Un ottimo disco che meritava un approfondimento. Di seguito la nostra intervista con la band.
Come nasce Masche, volete presentarvi ai lettori?
Cristina: Masche è nato nel 2013, da un’idea di Wally (Valerio Zucca Paul, ndr). Nel tempo il gruppo ha cambiato diversi assetti e ora la formazione è stabile da circa un paio d’anni. Ci definiamo collettivo per la liquidità che ci caratterizza: il tutto si può riassumere con “chi c’è suona”, nel senso che non siamo legati alla formazione che ci rappresenta in questo momento ma di volta in volta ci adattiamo alle circostanze, suoniamo anche in due, o con persone diverse, in aggiunta o in sostituzione a qualcuno di noi. È stato un lavoro lunghissimo riuscire a ottenere un suono improvvisato compatto che ci caratterizzasse come insieme e che comprendesse le inclinazioni e il gusto di ciascuno di noi. Quando ci siamo ritenuti abbastanza soddisfatti, abbiamo registrato Kalvingrad, ma da allora il nostro suono si è già evoluto e molti aspetti hanno preso o perso spessore, seguendo la logica della naturalezza espressiva, e dell’approfondimento dei rapporti tra i vari strumenti, che evidentemente maturano come qualsiasi rapporto. La nostra intenzione è quella di proseguire in questo senso e arrivare dovunque questa esperienza ci porti, finché tutto questo ci divertirà.
Se doveste definire quello che suonate cosa direste?
Andrea: La musica di Masche è musica di coincidenze. Al pari del nostro vissuto come gruppo, pieno di coincidenze a volte negative (due anni fa qualcuno è entrato in sala prove e ci ha rubato tutto), a volte positive (non mi hanno ancora tolto la patente nell’ora di autostrada che faccio per tornare a casa dopo le prove), la nostra musica fa della coincidenza la principale cifra stilistica.
Nelle improvvisazioni, spesso caratterizzate da una esecuzione al limite del casuale, tutta la nostra concentrazione è rivolta al cercare di cogliere le coincidenze che man mano si vengono a creare. Queste concrezioni di note e ritmi, che spesso attingono dal nostro inconscio musicale, si sviluppano secondo il sentire del momento, diventando a loro volta terreno fruttuoso per la formazione di nuove coincidenze. Se non ci conoscessimo abbastanza, potremmo pensare che la nostra in qualche modo sia, per dirla alla Jung, “musica sincronica”. Invece no, noi sappiamo bene che ogni volta è sempre tutto, semplicemente, una coincidenza.
Mi interessa il ruolo di Wally: ci spieghi come intervieni nel suono della band?
Wally: Suonare con Masche è stata una sfida che mi ha dato modo di esplorare e affinare diversi modi espressivi. Il non-tempo, la non-struttura, le coincidenze, il forte carattere improvvisativo dei flussi sonori che genera Masche mi hanno spinto a cercare una forma di linguaggio distante dai cliché coi quali l’elettronica spesso viene catalogata. Utilizzo un paio di sintetizzatori hardware ed effetti, un’interfaccia audio, diversi midi controller, un computer che fa da collettore per il routing dei segnali, sul quale girano diversi plug in. Non uso loop o pattern registrati e per semplificare posso dire che ho sostanzialmente due modi di interagire. Il primo, e il più classico, è quello più vicino al “suonare”: interagendo/improvvisando con set ritmici, sintetizzatori, campionatori e tutte le diavolerie al silicio che fanno parte del set, per via di tastiere o controller, ponendomi parte attiva del suono improvvisato, scegliendo al momento, in funzione della situazione che si viene a creare, tra la tavolozza di suoni che ho deciso di selezionare per lo scopo specifico. L’altro, che è quello che in questo periodo mi interessa di più, è quello di sfruttare le potenzialità della tecnologia per generare suoni in accordo con le pulsazioni o l’armonia della band, acquisendo il segnale audio live tramite un paio di microfoni per poi utilizzarlo in real time come trigger per synth, drum machines o più semplicemente per passarlo in catene di effetti manipolabili al volo. Un modo bizzarro per estrapolare e digitalizzare l’anima elettroacustica di Masche e reintrodurla nel suono d’insieme per via di un anello di feedback che ne altera le caratteristiche e reintroduce suono fresco e vivo all’insieme.
Posso dire che talvolta è la band stessa suonare l’elettronica: al silenzio corrisponde silenzio, al suono corrisponde il risultato del processo digitale su cui la catena è indirizzata.
Quando suono non ho certezze riguardo a ciò che verrà generato, ma ho solo la consapevolezza del modo in cui sto processando. Non uso pre-ascolti in cuffia, preferisco la libertà e l’aleatorietà del risultato. Mi diverte anche il campionare il suono d’insieme per poi riproporlo in modo deviato in contesti differenti lungo la performance oppure tradurlo tramite automatismi in improbabili armonie oppure in melodie approssimate suonate dai sintetizzatori o in pattern ritmici.
Tante parole, ma noi tutto ciò lo chiamiamo: “la rimacina”.
Quanto c’è di composizione e quanto di improvvisazione in ciò che fate?
Alessandro: Il nostro suono nasce dall’abitudine a improvvisare liberamente in tutte le prove. Le strutture che vengono proposte dai vari elementi del collettivo vengono masticate e risputate dal nostro suono. Ogni idea proposta viene maciullata da ognuno di noi, dal nostro diverso modo di vivere la musica. Kalvingrad è stato organizzato con una labile traccia, lasciando margine all’inaspettato, al casuale, cercando di evitare l’esplicito, ma chiaramente è pieno dei nostri personali cliché.
Dischi e band di riferimento?
Cristina: Ci avessero fatto questa domanda vent’anni fa sarebbe stato più semplice rispondere, eravamo tutti ognuno a suo modo abbastanza voraci e maniaci. Oggi abbiamo meno foga e meno tempo, ma siamo forse più curiosi e i nostri gusti sono sparsi e diversissimi. Riferimenti veri e propri non ne abbiamo, ascoltiamo di tutto e ognuno seguendo i suoi interessi trova stimoli dovunque, anche per caso. Poi oltre a questo c’è il nostro lato personale, chi ascolta grindcore come non ci fosse un domani e chi ascolta slowcore, chi ascolta volentieri la radio e Spotify e chi non li sopporta, chi fa amarcord con Battisti ed Ivan Graziani e chi invece si perde nelle nuove tendenze e viene travolto dal digitale…
L’ambizione è quella di sondare un universo metalinguistico capace di conciliare realtà e immaginazione. Indurre riflessioni tracciando spunti, abbozzi, schizzi. “Kalvingrad” è quindi un luogo non luogo in cui si incontrano idealità e valorizzazione di ciò che è bello, di ciò che è armonico. La linea sottile che confonde percettibile e impercettibile. L’intuito, l’ispirazione e quella spiazzante sensazione di continua mobilità, di continua destrutturazione che smonta ogni assunto, ogni architettura nel momento stesso in cui la si mette a fuoco o la si crede stabile.