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September 12, 2018 by ADN 0
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Masche – Kalvingrad

Nuove piogge acide: l’esordio col botto di Masche, dal Piemonte. Recensione e intervista

MASCHE, KALVINGRAD (ADN/ WALLACE RECORDS)

“La traccia di un disegno così sottile che nemmeno gli insetti riuscirebbero a masticare”: così recita, in inglese, il retro di copertina del disco d’esordio per Masche, dal canavese, provincia nord di Torino, tra Ivrea e la Val d’Aosta. Le masche erano le streghe di questa zona, e in effetti ha qualcosa di pericoloso ed eretico il suono del quintetto, un gruppo nuovo ma pieno di vecchie conoscenze per chi ha frequentato i margini più interessanti del nostro underground: Alessandro Cartolari a sax alto e baritono era con Anatrofobia (autori di vari dischi degnissimi di attenzione negli anni passati, la maggior parte di questi per la benemerita Wallace Records di Mirko Spino, che è della partita anche a questo giro), Valerio Zucca Paul alle elettroniche era nei 3eem, Diego Rosso (batteria) e Andrea Chiuni (basso e voce) erano in Ex-p, autori di un disco per la fratto9. Completa la formazione Cristina Trotto Gatta alla voce. Cosa suonano Masche? Una musica libera e rigorosa, che sfugge a definizioni precise, eclettica, visionaria, nitida, frammentata e feroce. Ombre di elettronica astratta, ruggini This Heat, un approccio free rock sempre sghembo e sorprendente, un mood minaccioso, nero, un groove inesorabile ma mai esplicito. Cinque tracce che mostrano una faccia diversa ogni volta che le ascolti, tra detriti del jazz più avventuroso e corrotto (nel senso migliore del termine), piogge acide, strutture mobili, flussi di coscienza, un grande senso del controllo e delle dinamiche e un’ottima scelta timbrica. Molto interessante l’uso della voce da parte della cantante, brava nel trovare i giusti spazi in una musica che poteva rivelarsi inospitale se affrontata con un approccio timido, e ottime le elettroniche che rimasticano quanto suonato dagli altri, lo espandono, lo sminuzzano e lo trasfigurano, in un continuo gioco di rimandi che disorienta rendendo l’ascolto un’esperienza sempre nuova. Inesorabile nel suo mettere gli accenti dove non li aspetteresti il basso, randagio e selvatico il sax effettato (che suona come una chitarra), lieve ed aerea la batteria, abile nel mettere virgole e aprire spazi in questa selva caotica ma non disordinata. Un ottimo disco che meritava un approfondimento. Di seguito la nostra intervista con la band.

Come nasce Masche, volete presentarvi ai lettori?

Cristina: Masche è nato nel 2013, da un’idea di Wally (Valerio Zucca Paul, ndr). Nel tempo il gruppo ha cambiato diversi assetti e ora la formazione è stabile da circa un paio d’anni. Ci definiamo collettivo per la liquidità che ci caratterizza: il tutto si può riassumere con “chi c’è suona”, nel senso che non siamo legati alla formazione che ci rappresenta in questo momento ma di volta in volta ci adattiamo alle circostanze, suoniamo anche in due, o con persone diverse, in aggiunta o in sostituzione a qualcuno di noi. È stato un lavoro lunghissimo riuscire a ottenere un suono improvvisato compatto che ci caratterizzasse come insieme e che comprendesse le inclinazioni e il gusto di ciascuno di noi. Quando ci siamo ritenuti abbastanza soddisfatti, abbiamo registrato Kalvingrad, ma da allora il nostro suono si è già evoluto e molti aspetti hanno preso o perso spessore, seguendo la logica della naturalezza espressiva, e dell’approfondimento dei rapporti tra i vari strumenti, che evidentemente maturano come qualsiasi rapporto. La nostra intenzione è quella di proseguire in questo senso e arrivare dovunque questa esperienza ci porti, finché tutto questo ci divertirà.

Masche

Se doveste definire quello che suonate cosa direste?

Andrea: La musica di Masche è musica di coincidenze. Al pari del nostro vissuto come gruppo, pieno di coincidenze a volte negative (due anni fa qualcuno è entrato in sala prove e ci ha rubato tutto), a volte positive (non mi hanno ancora tolto la patente nell’ora di autostrada che faccio per tornare a casa dopo le prove), la nostra musica fa della coincidenza la principale cifra stilistica.
Nelle improvvisazioni, spesso caratterizzate da una esecuzione al limite del casuale, tutta la nostra concentrazione è rivolta al cercare di cogliere le coincidenze che man mano si vengono a creare. Queste concrezioni di note e ritmi, che spesso attingono dal nostro inconscio musicale, si sviluppano secondo il sentire del momento, diventando a loro volta terreno fruttuoso per la formazione di nuove coincidenze. Se non ci conoscessimo abbastanza, potremmo pensare che la nostra in qualche modo sia, per dirla alla Jung, “musica sincronica”. Invece no, noi sappiamo bene che ogni volta è sempre tutto, semplicemente, una coincidenza.

Mi interessa il ruolo di Wally: ci spieghi come intervieni nel suono della band?

Wally: Suonare con Masche è stata una sfida che mi ha dato modo di esplorare e affinare diversi modi espressivi. Il non-tempo, la non-struttura, le coincidenze, il forte carattere improvvisativo dei flussi sonori che genera Masche mi hanno spinto a cercare una forma di linguaggio distante dai cliché coi quali l’elettronica spesso viene catalogata. Utilizzo un paio di sintetizzatori hardware ed effetti, un’interfaccia audio, diversi midi controller, un computer che fa da collettore per il routing dei segnali, sul quale girano diversi plug in. Non uso loop o pattern registrati e per semplificare posso dire che ho sostanzialmente due modi di interagire. Il primo, e il più classico, è quello più vicino al “suonare”: interagendo/improvvisando con set ritmici, sintetizzatori, campionatori e tutte le diavolerie al silicio che fanno parte del set, per via di tastiere o controller, ponendomi parte attiva del suono improvvisato, scegliendo al momento, in funzione della situazione che si viene a creare, tra la tavolozza di suoni che ho deciso di selezionare per lo scopo specifico. L’altro, che è quello che in questo periodo mi interessa di più, è quello di sfruttare le potenzialità della tecnologia per generare suoni in accordo con le pulsazioni o l’armonia della band, acquisendo il segnale audio live tramite un paio di microfoni per poi utilizzarlo in real time come trigger per synth, drum machines o più semplicemente per passarlo in catene di effetti manipolabili al volo. Un modo bizzarro per estrapolare e digitalizzare l’anima elettroacustica di Masche e reintrodurla nel suono d’insieme per via di un anello di feedback che ne altera le caratteristiche e reintroduce suono fresco e vivo all’insieme.
Posso dire che talvolta è la band stessa suonare l’elettronica: al silenzio corrisponde silenzio, al suono corrisponde il risultato del processo digitale su cui la catena è indirizzata.
Quando suono non ho certezze riguardo a ciò che verrà generato, ma ho solo la consapevolezza del modo in cui sto processando. Non uso pre-ascolti in cuffia, preferisco la libertà e l’aleatorietà del risultato. Mi diverte anche il campionare il suono d’insieme per poi riproporlo in modo deviato in contesti differenti lungo la performance oppure tradurlo tramite automatismi in improbabili armonie oppure in melodie approssimate suonate dai sintetizzatori o in pattern ritmici.
Tante parole, ma noi tutto ciò lo chiamiamo: “la rimacina”.

Quanto c’è di composizione e quanto di improvvisazione in ciò che fate?

Alessandro: Il nostro suono nasce dall’abitudine a improvvisare liberamente in tutte le prove. Le strutture che vengono proposte dai vari elementi del collettivo vengono masticate e risputate dal nostro suono. Ogni idea proposta viene maciullata da ognuno di noi, dal nostro diverso modo di vivere la musica. Kalvingrad è stato organizzato con una labile traccia, lasciando margine all’inaspettato, al casuale, cercando di evitare l’esplicito, ma chiaramente è pieno dei nostri personali cliché.

Dischi e band di riferimento?

Cristina: Ci avessero fatto questa domanda vent’anni fa sarebbe stato più semplice rispondere, eravamo tutti ognuno a suo modo abbastanza voraci e maniaci. Oggi abbiamo meno foga e meno tempo, ma siamo forse più curiosi e i nostri gusti sono sparsi e diversissimi. Riferimenti veri e propri non ne abbiamo, ascoltiamo di tutto e ognuno seguendo i suoi interessi trova stimoli dovunque, anche per caso. Poi oltre a questo c’è il nostro lato personale, chi ascolta grindcore come non ci fosse un domani e chi ascolta slowcore, chi ascolta volentieri la radio e Spotify e chi non li sopporta, chi fa amarcord con Battisti ed Ivan Graziani e chi invece si perde nelle nuove tendenze e viene travolto dal digitale…

Nazim Comunale (The New Noise) 03/12/2018

 

 

Among the numerous music journalist cliches I strive to avoid, “defies classification” ranks near the top of the list. As much as modern music listeners roll their eyes at genre tags, they’re objectively useful, and often times easy to apply even if you need a few to get the job done. Yet, with Kalvingrad, I found myself continuously tacking on new descriptors as the album progressed until I arrived at an amalgamation of words I’ve never thrown at a jass album before. For now, I’m comfortable labeling this as electroacoustic-jazz-rock-poetry…I guess. Honestly, this is an instance where I’d simply send a link to a select few of my friends with the message “Just listen now and thank me later.”

This speaks to just how talented Masche are as a group of improvisers and all-around experimental wizards. The Italian collective is comprised of a unique setup for a jazz ensemble which the members use to their advantage. Of course, the group enlists some traditional instrumental services, and they’re fortunate to have landed some phenomenal foundational support from drummer Diego Rosso and bassist Andrea Chiuni (who also provides vocals to the proceedings). On top of it all, the collective is rounded out by some truly exceptional performances from saxophonist Alessandro Cartolari on alto and baritone, Cristina Trotto Gatta on vocals and Valerio Zucca Paul manning the electronics and effects. To further the collective, self-sufficient spirit of the group, Cartolari and Paul recorded the band’s live performances, and Paul mixed the affair to produce Kalvingrad.

It’s a motley crew of performers for sure, yet they somehow pull together for one of the wildest and nearly indescribable jazz releases I’ve heard in quite some time. As one idea begins to develop, another takes over and leaves you scratching your head, which happens to be bobbing and swaying all the while. To start things off, Cartolari honks away on album opener “Still,” hinting toward a solid solo free jazz romp. But then the remainder of the band kicks in to produce a lurching beast decorated with oozing scales and an unsettling posture. The track falls somewhere between the cavernous sonic effects on Herbie Hancock‘s Sextant mixed with the aggressive jazz of a Peter Brötzmann, an odd meeting of the minds that ebbs and flows as much into jazzy territory as it does electronic music of the more electroacoustic variety. At the same time, evocative poetry from Gatta adds an even more unique flair to the record. Her delivery sounds like Fever Ray trying out her best Björk impression, which is indeed as bizarre and intriguing as it sounds.

Though the remainder of the album builds on this formula in a similar and equally satisfying way, I have to give another specific shoutout to “Grumi”. which is easily my favorite track. Thumping, distorted bass notes weave between Cartolari’s liberated sax playing and percussive accents from Rosso. Yet, Paul steals the show with the help of Gatta’s distinct vocals. He manipulates her vocals and glitches them a captivating manner, adding an almost catchy element to the track that’s instantly memorable from your first playthrough of the album. Paul steals the show further on “Desire,” which sees him molding the collective’s compositions into perhaps the closest we’ll get to “Autechre playing avant-garde jazz.”

Several paragraphs after I proclaimed Kalvingrad belied easy description, here I am summarizing a series of thoughts aimed at convincing you that Masche have something truly special going on here. As with many of my favorite jazz albums of the year, Kalvingrad seemingly came out of nowhere, and I instantly felt remorse for not finding this in time to include it with our last Jazz Month Quarterly for the Second quarter of the year. I suppose this standalone piece will suffice, but again, I still feel like I haven’t captured just how mentally stimulating Masche are for listeners of any jazz or electronic music background. They present an endless stream of ideas to absorb, and I couldn’t recommend their unique brand of electro-jazz any more highly. Avant-garde jazz fans should immediately press play below; trust me, you’ll thank me later.

Scott Murphy – Jazz Club

 

Masche – Kalvingrad (ADN/Wallace), avanguardia e impro jazz.

“Kalvingrad” è il disco d’esordio dei Masche, collettivo musicale nato in Canavese nel 2013 che si esprime improvvisando. Il loro è un approccio jazzistico che miscela elettronica e rock. I Masche sono un quintetto i cui componenti hanno alle spalle, e in parallelo, altre intriganti esperienze musicali.
Il titolo del disco “Kalvingrad” è dovuto ai testi che la cantante Cristina Trotto Gatta ha scritto ispirandosi liberamente a “Le città invisibili” di Italo Calvino. Diciamolo subito: un disco così se ne sentiva assolutamente l’esigenza, perché ultimamente sono stati rari i lavori impro con una capacità di catturare l’attenzione anche di coloro che sono meno abituati a certe sonorità. Il sax di
Alessandro Cartolari, infatti, si coniuga bene con il basso di Andrea Chiuni e con la batteria di Diego Rosso; su queste ritmiche la voce canta in controtendenza rispetto alla strada intrapresa dai musicisti, anche perché Valerio Zucca Paul all’elettronica le dà man forte prendendo anche lui strade del tutto personali. Il risultato finale è quello di un lavoro nel quale emerge la collettività perché prima o poi i percorsi intrapresi dai cinque si ricongiungono in una dialettica musicale onnicomprensiva, grazie soprattutto alla capacità avvolgente delle parti elettroniche.
Le sperimentazioni di “Still”, soprattutto nella seconda parte del brano, evocano quelle degli Area. “Grumi”, invece, appassiona o fa incazzare piacevolmente per quei continui spezzettamenti, perdonate l’ossimoro, ma il percorso intrapreso dal basso viene sovrapposto dal sax e della batteria, per cui le linee musicali subiscono fratture e cadute, ma puntualmente sono in grado di risollevarsi suscitando nell’ascoltatore sensazioni contrastanti che comunque non disturbano. Anche in “Desire” vi sono molti spezzettamenti ma con un’incertezza maggiore e una maggiore propensione alla sperimentazione elettronica con il sax che distende la tensione nel finale. I nove minuti e mezzo di folk sghembo e sperimentale di “Hung” sono un modo per cambiare registro stilistico, mentre con “Puma” il quintetto rende omaggio alla New York dei Velvet Underground e dei primi Sonic Youth. Un lavoro che solo in apparenza è fatto di momenti e sonorità casuali.

Vittorio Lannutti – Freakout Magazine

 

 

30 secondi di sax baritono acido e malmostoso, quasi una chitarra in una giungla di elefanti, poi un groove in bilico sulla corda della pulsazione, l’elettronica a spostare volumi, pesi, il basso come baricentro stabilmente instabile per avanzare sul precipizio, la batteria a mettere ordine nel disordine, la voce ad alzare la testa in questo temporale elettrico, per puntare gli occhi verso un sole che non arriverà. E’ scuro il mood di questo esordio ispirato alle Città invisibili di Calvino del quintetto Masche. Disco di distanze siderali e silenzi densi, monumento sibillino alla libertà di chi non smette di cercare l’inaudito.

Nazim Comunale – Manifesto

 

 

Masche  KALVINGRAD

2018 – ADN Records-Wallace Records
[Uscita: 28/06/2018]
Collettivo del Canavese nato nel 2013, Masche, riporta in auge la tradizione qualitativamente alta dell’improvvisazione. Registrazione live in presa diretta, un connubio calibrato ed emotivamente efficace di istinto e di concettualmente vagliato, un progredire affiatato capace di prediligere il sentire comune e la singola, bizzarra, intuizione. Sono Valerio Zucca Paul all’elettronica, Cristina Trotto Gatta alla voce, Diego Rosso batteria, Andrea Chiuni voce e basso e Alessandro Cartolari sax contralto e tenore. La frontiera avanguardistica si dipana all’orizzonte nel gioco sfida dell’alea e dell’equilibrio combinatorio. Come fu per Italo Calvino nella fase sperimentale a cui risale il racconto ‘Le città invisibili’ ispiratore del disco. Come fu negli intenti dei grandi gruppi improvvisativi del secolo scorso (GINC, MEV e AMM). Le trame comunicative e sonore sono disposte in un modo deliberatamente astratto e anti-strutturale con la finalità di muovere e spostare oltre il significante e le logiche sottese.

L’ambizione è quella di sondare un universo metalinguistico capace di conciliare realtà e immaginazione. Indurre riflessioni tracciando spunti, abbozzi, schizzi. “Kalvingrad”  è quindi un luogo non luogo in cui si incontrano idealità e valorizzazione di ciò che è bello, di ciò che è armonico. La linea sottile che confonde percettibile e impercettibile. L’intuito, l’ispirazione e quella spiazzante sensazione di continua mobilità, di continua 0012629841_10destrutturazione che smonta ogni assunto, ogni architettura nel momento stesso in cui la si mette a fuoco o la si crede stabile. Math rock e free jazz si abbracciano e si respingono in una caracollante danza dell’inquietudine, Still. L’elettronica e la marzialità di un folk evanescente a suggerirci nostalgicamente gli esperimenti naif di Marinuzzi jr o le manipolazioni di Marino Zuccheri nell’indecifrabile intrigo di Desire. 

Le molteplici trasposizioni portano ad un paesaggio sonoro acusmatico e a una complessità narrativa e multimediale volutamente ibrida che muove su traiettorie affascinanti quanto imprevedibili. Teatralità, recitazione, musique concrète, effetti e screziature di sax a dare un tocco di armonioso eclettismo e verve creativa. Pezzi come Grumi, Hung e la chiusa spumeggiante di Puma (on Leash) ci riportano alla sperimentazione più valida e per niente scontata di realtà come Anatrofobia (Cartolari e Trotto Gatta non a caso ne fanno parte, senza contare lo zampino della stessa etichetta Wallace e la provenienza geografica),  Jooklo Duo o Jealousy Party, con la loro voce veramente libera, sdoganata e audace, capace di aggiungere tasselli di inedito e fuori dal coro.

Voto: 7,5/10

Romina Baldoni – Distorsioni

 

L’opera prima dei Masche, collettivo di improvvisatori già attivo da diversi anni, si ispira già nel titolo a Italo Calvino e alla sua scrittura essenziale, strutturata, fatta di superimposizioni eppure talmente lirica. Tagliente come una lametta, il sound incide in profondo: le linee di basso di Andrea Chiuni, talvolta sintetizzate, talvolta compresse al punto giusto, danno quella sensazione come quando si riceve, appunto, un pugno sullo stomaco. Potente, vigoroso, sincopato, il sound è come vedere le città invisibili di Calvino fatte di casermoni sovietici. Le liriche scritte dalla cantante Cristina Trotto Gatta fanno riflettere in modo piano, poiché la voce tiene un recitato che è sempre il medesimo, senza scatti, senza eruzioni. Il sax di Alessandro Cartolari merita una menzione a parte, perché, come si può ascoltare p.es. in Still, si abbandona in un flusso imprevedibile, inaspettato, energico. A riempire i vuoti, in modo intelligente, non protagonista ma nemmeno ornamentale, ci pensa l’elettronica di Valerio Zucca Paul. In sintesi: un ottimo prodotto di improvvisazione, estremamente ascoltabile anche registrato.

Gianni Zen (KATHODIK)

Gli spasmi del sax (più che ad Ayler o Brötzmann fanno pensare a Roscoe Mitchell), i recitati lascivi alla Lydia Lunch, l’elettronica sporca e cattiva, la ritmica che sposa il free jazz al funk,todo è no (no wave, no rock, no jazz) in questo collettivo con alcuni componenti dagli illustri trascorsi (3EEM, Anatrofobia). Roba da streghe e stregoni. D’altronde le Masche, alle quali si fa riferimento nella ragione sociale, hanno un loro significato stregonesco nella tradizione folclorica piemontese. Gli accostamenti si fanno via via più nitidi e/o più sfumati (c’entra lo stato d’animo del momento ma anche una musica così mal inquadrabile e indefinibile): Yoko Ono, Starfuckers, Swans e cose simili. Un buon manifesto sonoro del collettivo, dal momento che masca sembra derivare da un termine longobardo che stava a indicare l’anima di un morto, mi sembra albergare nell’oscuro e inquietante coro muto di Hung. Pregi e difetti: “Kalvingrad” è formato da singoli episodi di eccellente fattura che però non sembrano legare troppo bene l’uno con l’altro. I pregi superano comunque di gran lunga i difetti.
Mario Biserni (Sands-zine-no-zine)       

 

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