Anatrofobia – Canto Fermo
Blow Up 113, Massimiliano Busti recensiva “Brevi Frammenti di Presenza“, materia nervosa, schegge-tessere di un puzzle tra rock e free-jazz, che scardinavano la struttura dei dischi precedenti e però fluivano verso un suono cerebrale che diffonde un’impalpabile tensione. In formazione Alessandro e Luca Cartolari, Andrea Biondello con anche, voce e testi, Nazim Comunale. A proposito, anche Nazim Comunale ha scritto troppo colti e cerebrali (per il jazzcore), e se direte che è parte in causa, tutti noi in qualche modo lo siamo. La tensione di fatto, dopo tredici anni, è ancora là. Guardatevi i video del wrap-up, dei live di fine 2019 e le versioni della Lost Garden session (profezie dei mesi che son venuti). In questo lungo iato, la musica si è trasformata ancora, tutto è diventato molto fluido, tante corde grasse e scivolose, che avviluppano, ma non del tutto, grumi ed asperità (Alice Wonders). Olio di basso, di archetto ed ebow. D’altra parte, l’approccio al suono è sempre stato controllato e calibratissimo (sempre la parte in causa). Di quell’ensemble 2007 abbiamo L. Cartolari e Biondello ai quali si aggiungono Paolo Cantù (in fedina Tasaday, Afterhours, Uncode Duello, A Short Apnea) e Cristina Trotto Gatta (che, mi pare, fu anche in Masche).
L'(in)atteso lavoro ha colori inconsueti di un autunno ubiquitario (il tono di Keeping Things Whole). Per darvi un’idea sbagliata (comunque un’idea), c’è ombrosità melanconica alla Surman (Canto Fermo è un inquel di “Such Winter of Memory), ieraticità dolente (increspata da frenesie rumoristiche, tenute sempre a bada). Qualche fantasma ci potrebbe anche dare ragione delle impressioni eicheriane. Ad esempio, It Should’ve Happened a Long Time Ago (Motian con Lovano e Frisell). Non ve lo diciamo che è più bella dell’originale, diremo solo: c’è più “carne e sangue”. E quanto va giù nei recessi Nero di Seppia. A proposito di spettri, ce ne sono altri. The Speeding Train, che fu dei Van Pelt: un sudario, voce sussurrante e tutto il basto della rabbia sulla batteria (che si trascina via tutti). Golden Slumbers, roba (qui mi dicono “minore”) dei Beatles, una candela che fa una fiammata e si spegne (non del tutto). La tensione, oggi, è palpabile.
(8)
Dionisio Capuano (Blow Up 266/267) Luglio/Agosto 2020
What a weird and ingenious record this is, I have to say! Anatrofobia are back from a thirteen-year silence with Canto fermo, an experimental jazz record both daring and silent. One aspect of its complex personality is the unhinged creativity at the core of the compositions, showing no shame nor restraint as to its potential or capabilities. The other side is represented by the hushed, almost shy vocals of Cristina Trotto Gatta, barely audible, providing a deranging, eerie feeling that permeates through the whole album. The two parts really are what makes the album so fantastic.
Daev Tremblay – Can this even be called Music?
Mea culpa, mea culpa, mea maxima culpa. L’ammissione di peccato sarebbe aver ignorato, sino ad ora, l’esistenza di Anatrofobia, progetto piemontese al settimo album in 30 anni di carriera. Luca Cartolari (basso, effetti) e Andrea Biondello (batteria), coadiuvati da Paolo Cantù (chitarra, clarinetto, elettronica, effetti) e Cristina Trotto Gatta (voce) ci consegnano Canto Fermo. L’ascolto è catturato da un suono che oltrepassa i confini musicali e sorprende per contaminazioni e suggestioni evocate, tra ritmi jazz in controtempo, psichedelica, minimalismo elettroacustico, progressive e nervose declinazioni rock e jazzcore, tra U.S. Maple e i primi Zu. Notevole il timbro vocale della Trotto Gatta, tra Suzanne Langille e Beth Gibbons, perfetto per le atmosfere austere e narrative dell’intero lavoro.
82/100
Antonio Briozzo – Rumore 342/343
Anatrofobia are an Italian RIO/experimental progressive rock band from Italy, who between 1997 and 2007 released 6 studio albums. At the time there was a core of brothers Luca Cartolari (bass and electronics), Alessandro Cartolari (alto sax and electronics) and Andrea Biondello (percussion). Some 13 years on from their last full-length the album, are back with their next. Only Luca Cartolari (bass, e-bow, effects, computer) and Andrea Biondello (drums) are still there, and they have been joined by Cristina Trotto Gatta from Masche (voice, melodica) and Paolo Cantù (guitar, clarinet, effects, loops, electronics). Cantù is a well-known guitarist in the experimental scene, playing in bands such as Makhno, Tasaday, Afterhours, Six Minute War Madness, A Short Apnea, Four Gardens in One, End of Summer, Damo Suzuki’s Network, and others. Anyone who is heavily involved with any member of Can is always going to have an interesting approach to music, and such is the case here.
The band have historically been an instrumental act, but now they have a singer, yet her approach (which may actually be just reading the words although she does sing as well) fits in well with what is an incredibly experimental and interesting outfit. There is a feeling of a large amount of improvisation on the album, although some pieces are obviously structured quite deliberately. But while there may be beautifully delicate fretless bass, that could be pitted against strange electronic noises and jagged sounds which both brings all the elements together yet also deliberately alienates them. Often one has no idea where the music is going, but then one does wonder if the band does either, yet somehow it always comes to a logical conclusion. Delicate yet strong, this is left field music for those who enjoy musicians who continue to push boundaries and do something quite different. Anatrofobia were originally formed nearly 30 years ago and it will be interesting to see if we have to wait another 13 years for the next one as this is both solid and incredibly interesting.
Kev Rowland (ProgArchives) 10/10/2020
“Ritorno con sorpresa”
Non ogni ritorno è riproposizione, non ogni riemersione è restituzione intatta del sommerso. Anzi, ci sono ritorni eterodossi, ricchi di un surplus significante che non si lascia inquadrare nel già stato, di un eccesso incontenibile o di un’erranza non collocabile. Il ritorno discografico degli Anatrofobia si inserisce a tutti gli effetti nella categoria del “ritorno con sorpresa”.
Arrivato tredici anni dopo il precedente Brevi Momenti di Presenza (2007), “Canto Fermo” è caratterizzato, innanzitutto, da importanti cambi nella line-up: l’aggiunta della vocalità di Cristina Trotto Gatta e del polistrumentismo di Paolo Cantù, unitamente all’assenza del sassofono di Alessandro Cartolari; a rimanere invariati rispetto al trio originario sono il basso fretless di Luca Cartolari e la batteria di Andrea Biondello. L’ascendente dell’Hardcore Chambermusic del trio Koch-Schütz-Studer è ormai piuttosto impalpabile e si fanno strada affinità elettive in passato più implicite, ora dichiarate. Il pluristilismo degli Anatrofobia resta intatto, ma vira verso una moderazione delle spigolosità e un ridimensionamento dell’aspetto primitivista-selvaggio a favore di una forma più compiuta e di un maggiore intimismo cameristico. Ed è con le parole di “Keeping Things Whole” di Mark Strand che viene dichiarata programmaticamente la poetica di questo disco: assenza nella presenza, disparizione nella spazialità, unificazione nel movimento.
“Keeping Things Whole”, un tintinnare di armonici, mette in moto un pezzo in si minore che, per carattere, potrebbe ricordare una versione funerea dei Lamb. Il disegno melodico principale viene sapientemente variato al basso fretless; la rumoristica, con funzione di interpunzione, è affidata alla chitarra, mentre la batteria è soggetto improvvisativo continuo, mobile, frastagliato, asimmetrico. La voce è liturgica, sussurrante, spazializzante. Con questa composizione d’apertura il disco presenta la sua carta d’identità senza sbavature e divagazioni.
“Canto Fermo” è una versione contemporanea, fosca e brumosa, del tradizionale cantus firmus gregoriano. Un canto della lontananza e in lontananza, che cambia conformazione non appena il basso fretless mette in movimento la sua linea per poi liberare il clarinetto come voce solista, in un bordone di sol minore agglutinante e magico.
“Nero Di Seppia” è un dark cameristico à la Fantômas, seppur misurato e ordinato, che potrebbe fare da colonna sonora ad un film come “La scala a chiocciola”. Un lampo nero in una stanza squarciata da ombre inquiete.
“The Speeding Train”, attacco à la Popol Vuh, subito superato dalla messa in moto della “macchina del sentimento”, in cui la voce recitante viene contrastata dall’incremento ritmico-caotico della batteria e dal sovrapporsi di due linee di chitarra (tematica e ritmica) per poi diradarsi nuovamente, ricavando un senso vertiginoso di vuoto, ed infine esplodere in una inevitabile “catastrofe della velocità”: qui la voce, soffocata dietro agli strumenti, cerca di far sentire le sue urla. Finale funebre in dissolvenza.
“Mille”, pezzo trasognato, evanescente, epifanico, come una pagina sonora staccata del diario intimo del ricordo.
“Rubik”, sul testo poetico di Cristina Trotto Gatta, che metaforizza il senso precario dell’esistenza attraverso visioni irrelate, percezioni sottili e tropismi, incede una sorta di western astrale che rotola sul fast della batteria e del monolitico basso.
“Details” è una ballad sulla poesia della concretezza dove gli elementi si travasano l’uno nell’altro, dove sospensione e incompletezza assumono i tratti di una felicità atipica, con una sorta di motto: “details with no tails”. Ambientazione sonora equilibrata, consonante.
“It Should’ve Happened A Long Time Ago” è una composizione dello storico batterista jazz Paul Motian. La resa interpretativa offerta dal fretless di Luca Cartolari è scarna ma cantabile, mentre il batterismo di Andrea Biondello incarna compiutamente lo spirito del moderno batterismo di Motian. Dopo l’entrata della voce, che intona due epigrammatici versi sul potere evenemenziale del dare un nome (“Take this, name it please, make a word for it. / Then tie me to a tree and leave me there”), il tema viene esposto con più vigore e voluta scapigliatura free.
“Alice Wonders” è un pezzo con malinconiche venature soft-punk, in cui la dispercezione paradossale di Alice (“How come then I am always / too big – or too small”) viene tradotta in musica come per osmosi rispetto al testo. Una prima parte, sostanzialmente basata sull’effetto di svuotamento dato dalla logica dello stop-and-go, lascia spazio ad una seconda sezione con loop trainante, effettistica, e un doppio piano di percezione del beat (lentezza agonizzante della melodia / velocità della ritmica irregolare).
“Valzer della Stacada” di Breil, tratto dal repertorio della festa popolare di Breil-sur-Roya, trova qui un insolito ed eccentrico trattamento: è strecciato, vaporizzato, assediato da echi, ostacolato da suoni stranianti.
“Golden Slumbers”, il pezzo di Lennon & McCartney, viene fatto passare per una porta del tempo che ce lo restituisce in pillola, minimalizzato, e con effetti allucinatori e deformanti.
Un più che gradito ritorno, già spalancato sul futuro.
Pier Marco Turchetti (The New Noise) 13/06/2020
“Canto Fermo” è il nuovo album di Anatrofobia, realizzato recentemente dopo 13 anni dal precedente Brevi momenti di presenza del 2007, grazie alla collaborazione con Wallace Records, ADN Records, Lizard Records, Neonparalleli e Out Records, oltre che con il supporto della Amirani Records.
Anatrofobia, Band cult underground dalla carriera trentennale con all’attivo sette album in studio e due live, può essere adeguatamente presentata con queste parole di qualche tempo fa di Nazim Comunale, da The New Noise: “Troppo colti e cerebrali per il jazzcore, troppo punk per gli ambienti accademici, troppo silenziosi per gli amanti del free più fisico, troppo intelligenti per chi crede che basti un sassofono per poter dire che quello è jazz, capaci di muoversi con disinvoltura tra ombre di contemporanea e ruggini rock, in una terra di mezzo ignota e non ancora colonizzata dove convivono felicemente un approccio selvaggio eppure controllato e calibratissimo al suono e alle sue componenti dinamiche e timbriche, le ansie da hardcore da camera dei grandi Koch Schutz e Studer (forse il punto di riferimento più stabile per la band) con i profili della storia del jazz libero rivisti attraverso una lente sempre personale e coraggiosa.”
La line-up attuale degli Anatrofobia è formata dai due membri “storici” della band, il bassista e autore di tutti i brani originali Luca Cartolari (Fretted e Fretless 4-corde a 6 corde-chitarre basso, fiocco, E-Bow, Effetti, Programmazione Csound) e Andrea Biondello alla batteria, insieme ai due nuovi membri della band, Cristina Trotto Gatta, autrice di tutti i testi originali e già con Masche (Voice, Melodica) e il polistrumentista e anima”punk” Paolo Cantù (Chitarra elettrica, Clarinetto, Effetti, Loop, Elettronica), già con Makhno.
Ero davvero curioso di ascoltare questo lavoro, pubblicato almeno per ora “solamente” in vinile, supporto giustamente ancora ritenuto oggetto di culto per i collezionisti e non solo, ma disponibile anche in download sulla piattaforma digitale di Bandcamp, formula che ritengo decisamente valida nella tradizione quanto aggiornata ed efficace per la diffusione. In questo caso ho però faticato davvero a completare l’ascolto di tutti i brani di questo ultimo lavoro degli Anatrofobia, ma soltanto perché ho subito iniziato a riascoltare ripetutamente il titolo di apertura che mi ha immediatamente stregato con suoni bellissimi, ipnoticamente ricchi di armonici alternati a silenzi, introducendomi e accompagnandomi per mano in vasti spazi aperti, paesaggi sospesi tra un altrove e il nulla, mentre la voce sussurrante di Cristina, nella parte iniziale del brano e nel finale, fino alla totale solitudine prima del vuoto al termine della traccia, recitava le bellissime parole di una lirica di Mark Strand, poeta canadese che ci ha lasciato nel 2014, “Keeping Things Whole” (Tenendo le Cose Insieme), così traducibili: “In un campo io sono l’assenza di campo. Questo è sempre in ogni caso. Ovunque io sia, io sono ciò che è assente … Quando cammino divido l’aria e sempre l’aria si muove per riempire gli spazi dove era stato il mio corpo. Abbiamo tutti una ragione per muoverci … Io mi muovo per tenere le cose insieme.”
Ricordo di avere letto di una band (non mi si chieda però quale) che per catturare l’attenzione di un pubblico distratto e alquanto rumoroso, anziché alzare i volumi ingaggiando una ennesima guerra dei decibel tra band e pubblico, più quest’ultimo rumoreggiava più abbassava i volumi dal palco, con un’efficacia talmente sorprendente da riuscire alla fine a trasformare il più chiassoso dei pub in una platea attenta e partecipe … La scelta di tenere bassissimo nel missaggio finale del primo brano il livello della voce di Cristina, già volutamente esile e quasi un sussurro ai limiti dell’udibile, alla fine, oltre che essere funzionalmente espressiva rispetto al contesto artistico, ottiene anche il risultato di invitare, se non costringere, a un attento e silenzioso ascolto, anche ripetuto, alzando progressivamente i volumi e poi riascoltando nuovamente il brano ricorrendo alle cuffie, per distinguere meglio le singole parole, ma intanto assaporando tutta la bellezza di ogni particolare, la qualità dei suoni, della musica e della voce di Cristina, per poi rileggere il testo cercandone una traduzione adeguata e cercare in rete per saperne di più di Mark, il poeta che ci ha lasciato questa lirica stupenda per la quale la musica di Anatrofobia è perfetta compagna di un viaggio che sta diventando anche nostro.
Le sensazioni che provo all’ascolto di Keeping Things Whole mi riconducono anche indietro, in un altro luogo sonoro senza tempo e nel quale amo tornare spesso, quello di “Rain Tree Crow” di David Sylvian, forse anche solamente per la bellezza e la grande apertura degli spazi sonori disegnati dalla chitarra, dal basso, dagli armonici e dai suoni elettronici finemente calibrati di Paolo e Luca, mentre la batteria di Andrea scompone e ricompone ritmiche sottintese incrementando la grande quanto delicata ricchezza dei timbri e dei colori. Di efficace bellezza e semplicità il tema, poche note intensamente poetiche e descrittive enunciate dal basso che traccia con sicurezza la strada.
Il secondo brano, Canto fermo, dà titolo all’album ed è interamente strumentale, nella tradizione consolidata di questa Band, con Cristina che apre alla melodica (… cantus firmus? Melodia di base per lo sviluppo della polifonia successiva? … nel brano come nell’intero album?) per proseguire il percorso avviato con un cambio di prospettiva timbrico, arricchito dall’ingresso del clarinetto di Paolo sugli intrecci sonori e le tessiture free sempre più aperte e visionarie, l’uso dell’archetto con il basso mi riporta inoltre inevitabilmente a sonorità a me particolarmente care, come quelle dell’inizio strumentale di “Formentera Lady” dei King Crimson; ma la tavolozza dei colori diventa improvvisamente scurissima con il brano successivo, ancora strumentale, Nero di Seppia, sempre composto da Luca Cartolari ma in questo caso insieme al sassofonista Alessandro Cartolari. Il brano successivo, The Speeding Train, Il treno in corsa, è costruito (o forse più propriamente è decostruito) su un testo della Band statunitense Alternative Rock anni ‘90 dei The Van Pelt; la voce – ora in evidenza ma quasi aggredita dai suoni che la accompagnano – di Cristina, ancora liricamente recitante, si incrocia e confronta con un paesaggio sonoro sempre più inquietante e in continuo mutamento, fino all’annientamento tanto perseguito della forma canzone, che nella seconda parte del brano diventa drammaticamente totale. Molto bello il netto contrasto con le aperture del brano seguente, Mille, che ci ristora riportandoci all’aperto incoraggiandoci ad assecondare il proseguimento del viaggio.
Improvviso e sfolgorante cambio di scena con Rubik, scintillante liturgia di suoni, ritmi e voci sulla prima delle surreali e affascinanti liriche a firma di Cristina, un caleidoscopio di immagini e sonorità che ruotano vorticosamente nel cubo di Rubik; un brano bellissimo, da scoprire e riscoprire, e il riascolto immediato – anche in cuffia – è per me un obbligo … “Bambole russe – orchestrare un’uscita … Non c’è niente da spiegare per le Regole del cubo di Rubik”.
Pura magia con Details, Dettagli, qui la voce di Cristina pur continuando a recitare si fa canto, come in una inevitabile metamorfosi, già sulla figura ritmica iniziale della chitarra, assecondando i suoni meravigliosi che la circondano … e l’armonia ora prevale sul conflitto … Dettagli … “L’aria è il fuoco il fuoco è l’acqua l’acqua è terra e la terra è nulla e le parole non sono niente e il silenzio non è niente e il tempo è un replay e le ombre sono djs” … Dettagli …
It Should’ve Happened a Long Time Ago, Avrebbe dovuto succedere molto tempo fa, breve quanto fulminante lirica di Cristina – intanto la metamorfosi è compiuta e il canto è ormai evidente – sulla musica del grande batterista jazz Paul Motian, al quale il drumming di Andrea rende un bellissimo omaggio; a questo punto è doverosa da parte mia una annotazione sui suoni e sulla qualità della registrazione e del missaggio – Gran bel lavoro al Trai Studio di Inzago! – tecnicamente davvero impeccabili e tali da rendere pienamente l’infinita varietà timbrica di ogni strumento, sempre ben definito e ripartito tra i diversi piani sonori, a partire dalla batteria, una vera piccola orchestra di strumenti percussivi, che anche in questo brano scorre inarrestabile trascinando in progressione tutto lo sviluppo del brano, che culmina nel finale con l’emergere dirompente del clarinetto di Paolo e del basso fretless di Luca.
Alice Wonders è ancora una volta un brano articolato nello sviluppo di due parti ben distinte – il campionamento alla base del loop ritmico che apre la seconda parte mi ha perfino ricordato immediatamente la mitica Get Back suonata su un tetto londinese … possibile? – costruite sul testo di Cristina, sempre più straniante e visionario … “Ma se smettessi di sognarti dove saresti ora? Ho detto di pensare al senso, il suono seguirà. Posso dare saggi consigli. Sai, il problema è che mi distraggo e so dove sono quando non mi sogni.”
Grande atmosfera e suoni “spaziali” per la prima delle due “cover” finali, il tradizionale Valzer de la Stacada di Breil, qui dilatato tra sfuocature e specchi deformanti, echi di una festa popolare di secoli prima tra le rovine di una città ormai perduta, tutto quanto osservato, forse ammirato, da un punto di vista completamente alieno, indispensabile anche per l’assimilazione indolore della “cover” finale, chiaramente riconoscibile quanto decostruita, plasmata e deformata, ma per condurci alla fine del viaggio con una grande e personalissima – quanto pienamente coerente con la strada fatta per arrivare fino a qui – interpretazione di Cristina, che trova il modo di salutarci dolcemente alla fine di questo viaggio fantastico insieme agli Anatrofobia, con una delle più belle e consolatorie ninnenanne della storia della musica: Golden Slumbers dei Fab4 : “Once there was a way, To get back homeward. Once there was a way, To get back home, Sleep, pretty darling Do not cry… And I will sing a lullaby”
Canto Fermo, questo ultimo gran lavoro degli Anatrofobia, è veramente un album a più livelli di lettura, ricco di emozioni anche inattese,
tecnicamente perfetto e veramente bello da ascoltare e riascoltare senza fretta, assaporando e memorizzando ogni nota e suono, come si faceva un tempo con i vecchi e preziosi vinili, certi di scoprire ogni volta nuovi dettagli e sensazioni, grande musica di contaminazione tra i generi più creativi e oltre gli schemi, ma anche viaggio iniziatico e visionario attraverso ampi paesaggi ai confini di molti territori. Continuerò a seguire gli Anatrofobia in rete (consigliati il loro sito, la pagina su facebook e i video sul loro canale youtube) contando di riuscire presto a partecipare a un loro live per un’esperienza ancora più immersiva e appagante. Buon ascolto.
Mario Eugenio Cominotti (MAT2020) 20/06/2020
Chi l’avrebbe mai detto? Sono tornati gli Anatrofobia, a 13 anni dall’ultima comparsa su un supporto fonografico. Uno iato così lungo non può che portare cambiamenti, visibili in primis nella formazione: manca il sax di Alessandro Cartolari mentre sono della partita Paolo “Makhno” Cantù a chitarra e clarinetto e Cristina Trotto Gatta alla voce (dai Masche, progetto che ho colpevolmente mancato di recensire e che vi consiglio di recuperare). Un simile ricambio non poteva che portare grossi mutamenti alla musica, sebbene, dopo l’ascolto, l’impressione è che sia stata più la volontà di intraprendere nuove strade espressive ad aver generato il nuovo assetto che non il contrario. In effetti confrontare Brevi Momenti Di Presenza, A.D. 2007, con questo nuovo lavoro ha poco senso: non è tanto il tempo trascorso, quanto la direzione musicale imboccata, sorprendete anche per un gruppo che ha fatto del cambiamento “un dogma imprescindibile” (e qui rubo dalla recensione del sovracitato album vergata da Andrea Ferraris). Inoltre la presenza di ben quattro brani non originali (Beatles, Van Pelt, Paul Motian Trio e un tradizionale) sembra marcare la volontà di dare precisi punti di riferimento in vista di un nuovo inizio. Veniamo allora al disco. L’inserimento della voce è certamente il fattore determinante: Cristina Trotto Gatta canta sommessamente (Golden Slumber dei Beatles), recita (Keeping Things Whole, poesia di Mark Strand) , sussurra (Rubik), ma la sua non è una presenza impalpabile, si impone anzi al punto che, anche negli strumentali, i musicisti sembrano adeguarsi a toni non troppo chiassosi e a un certo minimalismo (Canto Fermo, Mille, Nero Di Seppia, il più drammatico). La batteria fa il suo dovere scandendo i ritmi, ma è anche lo strumento più libero di svariare, tenendo vivo quello spirito jazz che era uno dei marchi della vecchia incarnazione della band e che qui contribuisce ad animare ogni momento delle composizioni. Da parte loro, gli altri strumenti colorano una musica che è continua vibrazione, dotandola di carne e nervi attraverso tocchi lirici e accenti più spigolosi e scomposti (The Speeding Train, cover dei Van Pelt, Detalis, Alice Wonders). Se negli ultimi tempi gli Anatrofobia sembravano “sempre più inclini a giocare una partita a scacchi in solitario, a costo di risultare troppo cervellotici” (sto sempre citando l’antica recensione), in questa nuova veste ci regalano una musica profondamente empatica ma sempre poco catalogabile, che incorpora elementi jazz, free-folk e rock d’autore, con l’accento posto in particolare su quest’ultimo termine: canzoni che non rispettano la forma-canzone e che, nel momento in cui vanno costruendosi in nostra presenza, sanno già cosa vogliono essere, pur non scartando a priori alcuna possibilità. A me, che ho sempre trovato la proposta musicale del gruppo un po’ difficile, Canto Fermo piace molto e proprio per questo non dubito che qualcuno dei vecchi estimatori possa rimanere deluso. Ma d’altra parte, come recitano gli ultimi versi di Keeping Things Whole, “We all have reasons for moving. I move to keep things whole”. È questo che stanno facendo gli Anatrofobia.
Emiliano Zanotti (Sodapop) 24/07/2020
Pillola di aneddotica personale: quando scrissi per Storiadellamusica di “Brevi Momenti Di Presenza” degli Anatrofobia, nel lontano dicembre 2007, non avevo ancora compiuto quindici anni. A ripensarci oggi, da un lato, la circostanza fa sorridere, se non altro nel raffigurarsi che razza di effetto potesse allora avere un disco del genere sulla mente e sul gusto estetico in formazione di un giovane adolescente: dall’altro, invece, atterrisce rendersi conto di non sapere come e dove sia volato così in fretta il tempo. Chissà se lo sa il quartetto torinese, autentiche ed intoccabili per quanto mai sufficientemente celebrate istituzioni dell’underground jazz italiano, che di tempo – e di sua attesa – ne sa certo qualcosa: sei strepitosi full lengths nel decennio abbondante 1997-2007 (le preferenze del recensore, per quello che può valere, vanno ancora a “Frammenti Di Durata” del 1997 e “Tesa Musica Marginale” del 2004), poi uno iato in(de)finito, spesso, impenetrabile, interrotto sporadicamente dal momentaneo baluginio di ancor più misteriosi side projects (vengono in mente gli EA Silence del bassista Luca Cartolari, oltre ai recentemente scongelati Mathians del fratello sassofonista Alessandro, su cui spenderemo a breve qualche parola).
Una delle tacite ed inamovibili regole d’oro della buona narrativa recita: per ritornare in scena dopo un’assenza prolungata, un personaggio dev’essere mosso da ragioni radicali, irrinunciabili. Gli Anatrofobia di “Canto Fermo”, coprodotto da cinque etichette, sono una ragione sociale che quasi più nulla ha a che vedere con il proprio passato: non solo per i coraggiosi stravolgimenti di formazione (quasi del tutto escluso Alessandro Cartolari, che cofirma la sola “Nero Di Seppia”, mentre l’asse ritmico Luca Cartolari-Andrea Biondello viene sostenuto dall’innesto di lusso di Paolo Cantù a chitarra elettrica, clarinetto e chincaglieria elettronica e dall’ingresso alla voce dell’ex Masche Cristina Trotto Gatta), ma anche e soprattutto per i particolari di una proposta che, se già negli anni di maggiore visibilità veniva difficile ricomprendere sotto etichette uniformi, oggi sfugge definitivamente a qualsiasi tentativo di (finanche approssimativa) classificazione. Ad esempio, i più distratti potrebbero non accorgersene nemmeno dopo ripetuti ascolti, ma quattro degli undici brani della scaletta sono cover – laddove per “cover” s’intendano versioni ribaltate da cima a fondo, quasi al limite dell’irriconoscibilità. Si prenda “The Speeding Train” dei Van Pelt, un magma post-free jazz frantumato in decine di tessere componibili, quasi una nervosa sonata chamber post rock attraversata da spasmi elettrici. Ancora, il superclassico di Paul Motian “It Should’ve Happened A Long Time Ago” (di cui esiste una meravigliosa interpretazione friselliana) divampa in una coda memorabile, in cui la voce eterea di Trotto Gatta guida l’assalto tra il basso effettato di Cartolari, i tamburi fuori controllo di Biondello e il clarinetto sanguinante di Cantù. Un ponte fra colto e popolare viene lanciato dal “Valzer De La Stacada Di Breil”, traditional della val Roia qui restituito in una versione fluttuante, sospesa tra vibrazioni umbratili e arcani rimandi folk (Alessandro Sosso alla fisarmonica). È, soprattutto, il caso della conclusiva “Golden Slumbers” (sì, proprio quella!), trasformata in una sconnessa e sussurrata alta marea RIO dal fascino mesmerizzante.
“We all have reasons / for moving. / I move / to keep things whole”: così la penna di Mark Strand nello splendido componimento poetico sillabato da Trotto Gatta nell’omonimo brano, esplorazione astratta lasciata navigare a vista in un vuoto cosmico, un astral jazz svuotato di qualsiasi materialità, segnato dagli armonici del basso di Cartolari e dalla batteria semovente di Biondello. Spostarsi per tenere tutto assieme, in una visione assieme superomistica e panteistica, strutturalista e generativa delle cose. Accostare il libero minimalismo dark jazz della title track al recital ambient-isolazionista di “Rubik” (con ascesa ritmica tumultuosa, straripante), gli anfratti aguzzi e dissonanti di “Nero Di Seppia” a venti radioattivi schiaffeggiati da spazzole jazz ed epifanie labradfordiane (“Details”) sino alle angoscianti, statiche destrutturazioni no wave di “Alice Wonders”. Andare oltre per andare oltre, sino a quando non rimane nulla e, come nel Secret Painting di Mel Ramsden, scorgere quello che non si può scorgere.
Anti-disco italiano dell’anno. Tredici anni di attesa ben spesi.
7,5/10
Marco Biasio (Storiadellamusica.it)
Ritornano gli Anatrofobia, dopo una pausa durata tredici anni da ‘Brevi momenti di Presenza’, e fanno sette album in quasi trent’anni di onorato servizio dedicato al pentagramma. Aggiornamento di line-up che vede ai fondatori Luca Cartolari e Andrea Biondello, l’aggiunta di Cristina Trotto Gatta, e Paolo Cantù aka Makhno. Ritornano con un’opera eterea nella sua composizione, dilatata nel suo dispiegarsi brano dopo brano, dove accenni di melodia si fermano sospesi nell’aria per poi naufragare in disperate cacofonie punk accennate dalla voce spettrale di Cristina Trotto Gatta, vedi Keeping This Whole dal testo di Mark Strand, mentre in altri brani la formazione compone “acquerelli sonici” per l’ascoltatore, come la vagante strumentale Canto Fermo, l’ipnotica ballad Nero di Seppia, e anche The Speding Train, dal testo di Van Pelt, raccontata dalla Trotto Gatta con finale noise, la strumentale Mille, ballata blues minimale in slow motion. Questo solo per il lato A, poi si gira il vinile e c’è anche il lato B: e si continua così, con quasi impercettibili arazzi sonori alternati a momenti di esplorazione vocale come Rubik, l’accompagnamento delicato di Gatta in Details, It Should’ve Happened a Long Time Ago musica di Paul Motian versione fanfara jazz di un paese inesistente; la lunare Alice Wonders, Valzer de La Stacada di Breil traditional strumentale, e la chiusa con Golden Slumbers di John Lennon & Paul McCartney, anche questa accompagnata con la voce da Cristina Trotto Gatta. Una forma di assenza in musica, da ascoltare e riascoltare.
Voto: 8
Marco Paolucci (Kathodik Webzine) 10/09/2020
E chi se li ricordava più gli Anatrofobia! Mancavano all’appuntamento con un nuovo disco da tredici anni, l’ultima uscita fu “Brevi momenti di presenza” che ebbe il compito di chiudere un decennio di attività del gruppo piemontese che li vide protagonisti con ben sei album pubblicati.
Oggi la band ricompare in formazione leggermente rimaneggiata, infatti si nota la presenza degli storici Luca Cartolari (bassi, effetti, programming) e Andrea Biondello (batteria) a cui si sono aggiunti musicisti del giro underground italiano quali Paolo Cantù (chitarra elettrica, clarini, effetti, loops e lectronics) e Cristina Trotto Gatta (voce e melodica).
Un aspetto è sempre stato peculiare nel gruppo, cioè l’approccio al suono molto controllato e calibratissimo. Ciò che si rileva in questa nuova fatica è che la componente impro/avant ha preso il sopravvento su quella maggiormente free-jazz. Anche se si accenna ad una melodia, come potrebbe essere il caso della versione, molto bella invero, di “Valzer de la Stacada di Breil” oppure della stravolta resa di “Golden slumbers” di beatlesiana memoria, la voce della Trotto accentua la componente astratta attraverso i suoi recitati.
È una musica che si palesa in contorni espressionisti improvvisativi con i suoni sospesi (“Keeping things whole” e il brano omonimo), dove il jazz è ancora presente in special modo nella componente ritmica scandita da Biondello (“Mille”), ma in cui si assaporano temi western come “Nero di seppia”, avant rock colmo di elettronica (“The speeding train”), echi di psichedelia (“Rubik” e “Details”) e persino componenti world come nella cover, riuscitissima, di “It should’ve happened a long time ago” composta dal grande Paul Motian.
Si palesa un eccelso senso degli spazi così come è evidente un equilibrio cromatico del sound. Sicuramente inatteso, ma di grande impatto, forse non adatto a questa stagione, ma per l’autunno un ascolto irrinunciabile!!!
Disco Club Parma
Basta vedere il pool che s’è aggregato per produrre questo disco, al quale va aggiunto il supporto della Amirani, per intuire che si tratta di una realizzazione veramente importante e speciale. Sul sottoscritto ha avuto lo stesso impatto che a suo tempo ebbero “Maledetti” degli Area e “Sinistri” degli Starfuckers. Il che è tutto dire! Se la migliore caratteristica del progressive sta nel non essere (non è rock … non è jazz .. non è folk .. non è elettronica … non è classica … non è post … non è pre …), “Canto Fermo” è uno splendido esempio di progressive. A conferma i quattro intingono nel repertorio di Paul Motian (It Should`ve Happened A Long Time Ago), dei Van Pelt (The Speeding Train), dei Beatles (Golden Slumbers) e del folklore occitano (Valzer De La Stacada di Breil). Sorbole e sorbolette!, un bell’esempio di attitudine priva di paraocchi. Sul tessuto ormai consolidato creato dai bassi di Cartolari e dalle percussioni di Biondello si inseriscono meravigliosamente i suoni di Cantù, che porta una più che trentennale esperienza fatta suonando in ambiti che vanno dal rock più estremo, all’industrial, alla techno, e il bisbigliare di Cristina Trotto Gatta, malato, oscuro, inquieto e inquietante. Provate, se ci riuscite, a mettere insieme Milford Graves, Jaco Pastorius, Lydia Lunch e Robert Fripp, fateli benedire da Harry Partch e Hermann Nitsch, e chissà che non riusciate, previa una bella scozzata, a ottenere qualcosa di simile.
A questo punto serve un mea culpa per avere, in precedenza, snobbato gli Anatrofobia. Adesso dovrò andare a riascoltare con attenzione e con la mente sgombra da pregiudizi tutta la produzione precedente del gruppo piemontese. Vero è che rispetto alla prim’ora la formazione è piuttosto cambiata: fuori uno (Alessandro Cartolari) e dentro due (Paolo Cantù e Cristina Trotto Gatta), e vero è che il disco esce a ben 13 anni dal precedente “Brevi Momenti di Presenza”.
Mario Biserni (Sands-zine) 10/10/2021
Anatrofobia – 2020 – Canto Fermo
(Experimental Rock, Fusion, Jazz Rock, Free Jazz, Noise Rock, Dark Jazz)
Неожиданное возвращение. Этот итальянский коллектив, чье название означает “боязнь уток”, начал свою муз. деятельность еще в конце 90-х и записал шесть альбомов, последний из которых вышел 13 лет назад. Звучание коллектива всегда было непросто определить, они всегда блуждали где-то между жанрами. Экспериментальный рок и авант-прог, фри-джаз и свободная импровизация, джаз-рок и камерный джаз, пост-панк и даже неоклассика – всё это и не только в той или иной степени присутствовало в палитре их звука. При этом к разнородной эклектике это никогда не приводило, а звучание было целостным и узнаваемым.
Новая работа не подвела – она получилась во всех смыслах замечательной и тоже неопределенной и зыбкой по стилистике. Есть и изменение – в группе появилась вокалистка, что добавило еще новых красок. Впрочем, если сравнивать с их предыдущими работами, то этот альбом получился с чуть более выраженным и однородным звучанием, которое склоняется в нуарно-меланхолические настроения.
Музычки принес!