Massimo Giuntoli – F.I.T.

Massimo Giuntoli, compositore, performer, creativo urbano e artista multimediale, inizia la sua attività alla fine degli anni Settanta. Dichiaratamente debitore nei confronti di maestri quali Frank Zappa, Aaron Copland e la cosiddetta Canterbury Scene, ha sviluppato un proprio linguaggio musicale contraddistinto da un disinibito andirivieni tra l’accademia e una rosa alquanto eterogenea di altri linguaggi. Dal 1980 a oggi ha preso parte a numerose rassegne, in Italia e all’estero. Nel corso degli anni, la sua produzione musicale lo ha impegnato in progetti che inglobano azione scenica e installazioni multimediali.
Esce in questi giorni il nuovo album di Massimo Giuntoli, che non per niente si intitola F.I.T., vale a dire Found In Translation, una mappa per ritrovarsi nelle piste astrali nei lemmi di Molkaya, la neolingua che ricorda il Christian Vander dei Magma che tani anni fa si inventò il kobaiano. Se volete approfondire l’aspetto linguistico e antropologico cliccate qui 

Massimo, aiutaci a capire meglio questa tua nuova extravaganza lessicale, che a quelle sonore ci avevi già abituato…
Una lingua inventata, deliberatamente priva di alcun valore semantico, a creare inganni fonetici e assonanze capaci di evocare idiomi reali provenienti dalle latitudini più disparate della geografia umana. Il booklet di F.I.T. contiene sette opere di artisti che hanno accolto il mio invito di interpretare visivamente altrettanti soggetti descritti nella “Consolle di Molkaya”.

Cui corrisponde un linguaggio musicale sospeso e imprevedibile…
Diciamo che proseguo nel percorso di esplorazione del controverso rapporto tra testo e musica, approdando con F.I.T. a un alquanto improbabile lingua universale che si prende gioco tanto dei confini tracciati sulla Terra dalla specie più evoluta del nostro pianeta quanto del concetto di “straniero” ancora così profondamente radicato nella società dell’uomo contemporaneo.

Un progetto che avevi già presentato nella sua versione “live”, concepita per voce e harmonium
Il relativo Cd contempla invece un arrangiamento alquanto “stratificato”, a includere cori vocali (in solo, come l’intero lavoro), tastiere, harmonium e un paio di piccole improbabili percussioni, e contiene tre brani inediti anche rispetto a quanto presentato in concerto, per un totale di sette tracce (tra cui una lunga suite) che coprono un’ora di musica (59’28” per la precisione).

Non si scappa da certi riferimenti cui ci hai abituati…
Sì è vero che i riferimenti stilistici all’irrinunciabile Canterbury School non mancano, ma spero si colga che c’è molto altro, e non necessariamente richiamabile ad altre scuole.

Come approfondire le tematiche… molkayane?
Posso anticiparti che i microracconti filopatafisici delle Cronache molkayane, saranno pubblicati il prossimo anno dall’editore Giazira Scritture.

Gigi Marinoni (SempioneNews)  23/06/2021

 

 

Vivendo l’epoca del tutto subito, l’oggetto in questione potrebbe a un primo giro risultare troppo esoterico per l’ascoltatore casuale; intendiamoci, non è un disco di semplice decifrazione, nonostante il titolo vorrebbe alludere al contrario.
Intanto, chi conosce le opere precedenti di Massimo Giuntoli, sa già che non potrà aspettarsi nulla di semplice o senza un minimo di concettualità dietro. F.I.T. è un’opera mai scontata in cui l’ascoltatore sentirà una miriade di assonanze con il mondo del prog più sperimentale e a volte penserà di aver sentito qualche parola, o frammento di discorso, in cui significato e significante si congiungono.
Illusione. Dietro il gioco della fantomatica lingua (e annessa cultura) Molkayana, il buon Giuntoli si diverte a scherzare con le convenzioni e crea dei cortocircuiti nell’ascoltatore, che cerca disperatamente di attribuire un senso a quelle parole che, ovviamente, un senso non hanno. Così, alla fine si diventa complici e si finisce per crearsi delle storie per circoscrivere le vicende (narrate con fonemi inglesi) infrangendo quella barriera che di solito separa l’artista dal suo pubblico. Si cerca, fondamentalmente, una narrazione laddove non potrà esserci. Quest’opera, per puro paradosso, è al contempo anche l’opera più accessibile di Giuntoli ad oggi, bypassando la logica che vorrebbe la voce come portatore di messaggi unidirezionali e lasciandola agire solo come strumento che evoca tutte le possibili emozioni in un disco che rimarrà per sempre un misterioso e inarrivabile rompicapo.
Rispetto alle atmosfere degli Hobo o Piano Warps, due dischi totalmente strumentali, ci ritroviamo in uno strano mondo sonoro in cui basterebbe anche un titolo per poter decifrare il tutto. Eppure la voce, che tanto evoca quella di Robert Wyatt senza ricalcarne necessariamente il timbro, ci accompagna per tutta la durata del disco e sembra volerci svelare chissà quale segreto (insieme al tessuto musicale che sembra quello di un Philip Glass schizofrenico rinato a Canterbury), tenendoci sempre con l’orecchio teso a ogni variazione e senza mai ricorrere a una sezione ritmica “classica”.

Un disco assolutamente unico.

Antonio De Sarno (Open Magazine)

 

 

È un periodo di grazia per Massimo Giuntoli. Dopo anni vissuti in semiclandestinità con album iconici negli anni 80 (“Diabolik e i sette nani”) e una carriera in sordina, la sua creatività riesplode recentemente con la perla assoluta “Tender Buttons” (2020) da poco proposta dal vivo, “Hobo” (2019) e “Piano Warps” (2016). Come se non bastasse la fatica di un lavoro di composizione complesso come quello di “Tender Buttons”, Giuntoli torna nel 2021 con “F.I.T. – Found In Translation”, lavoro elaborato e multiforme che risplende all’interno della scena italiana vicina al prog e alla scena di Canterbury. “F.I.T.” non è un album di solo piano e voce, ma vede il ritorno di Giuntoli al piano elettrico, svelando l’ambizione di un brano di ben ventisette minuti come “Dan Rhanda Wey”, capolavoro di vocalizzi, di studio vocale che Robert Wyatt ascolterebbe di certo con entusiasmo. A tanta audacia non corrisponde un puro esercizio di stile; infatti, la lunga composizione permette a Giuntoli di concentrare in ogni gesto, in ogni suono percepibile o nascosto, un archetipo creativo. Alla base del progetto c’è l’utilizzo di una lingua inventata (stile Magma) e priva di una qualsiasi regola morfologica o di sintassi, concettualmente concentrata più sullo studio della fonetica. Giuntoli a questo aggiunge una destrutturazione del minimalismo, il dadaismo stile Canterbury-music e la colta semantica avantgarde, quasi a voler rappresentare una moderna coscienza politics/nonpolitics, dove l’essere umano è preda del dubbio e della stasi ideologica, che lo rende sempre più straniero in terra straniera. Portato in scena con solo voce e harmonium, nell’elaborazione discografica “F.I.T. – Found In Translation” si avvale di tastiere e percussioni che liberano la magia progressive-rock, soprattutto nell’unico brano che – oltre al già citato “Dan Rhanda Wey” – supera i cinque minuti, ovvero “Tamaji Gol” (di quasi dodici minuti). L’evidente richiamo a musicisti del passato, il già citato Robert Wyatt ma anche Philip Glass, Frank Zappa, i Gong, non rappresenta un’eventuale tesi di laurea per entrare nel mondo dell’avantgarde contemporaneo, quanto un limine litis dal quale far scaturire uno scontro/incontro tra l’aulica aurea della musica passata e la destabilizzante concretezza contemporanea, ben rappresentata da quegli episodi circoscritti nell’ambito dei due, tre e quattro minuti, che spesso vanno a integrare e completare il progetto originario. Il cristallino giochi di specchi e riverberi minimali di “Shayn Bayn” si destreggia tra poesia intimista e un giocoso intreccio di voci che cambia la prospettiva da magniloquente a burlesca, lasciando un senso di stupore e disincanto, un incastro di realtà, fantasia che agita le altrettanto fiabesche evoluzioni quasi geometriche di “Tabawa Gawama”. Che per Giuntoli sia giunto il momento di raccogliere il flusso di idee e ricerche che ne ha animato finora le performance live e discografiche è evidente. “Tender Buttons” è stato il primo passo in questa direzione, una progettualità che nei prossimi mesi si arricchirà di una nuova componente artistica, ovvero quella letteraria. Per chi durante l’ascolto delle suadenti e quasi fiabesche armonie di “Nehigon Lohl”, delle più tenui e delicate strutture alla Wyatt della dolcissima “Wral Ni Mor”, o del sardonico finale di “Si Landari Barigodà”, si è posto delle domande sulle connessioni tra la musica e il linguaggio immaginario dei testi, la risposta è pronta a venire. Nel marzo del 2022 sarà infatti pubblicato il libro “Cronache Molkayane”, ovvero i micro-racconti filopatafisici che tenteranno di descrivere l’universo parallelo dal quale Massimo Giuntoli ha attinto finora tutta l’ispirazione di un’opera che segna un confine netto per la musica moderna, non parliamo di capolavoro perché questo è un termine ormai desueto nel nuovo lessico creato da “F.I.T. – Found In Translation”.

Valerio D’Onofrio, Gianfranco Mormoro (Ondarock) 16/01/2022

 

 

L’utilizzo della voce considerato alla pari di un qualsiasi strumento musicale, nonostante sia ogni tanto presentato come un’innovazione o una particolarità di cui vantarsi, esiste sin dalla nascita della musica stessa. A ben vedere, la voce è stata probabilmente lo strumento delle prime rudimentali manifestazioni artistiche umane, parallelamente all’uso di pezzi di legno per creare suoni percussivi. Anche le lingue inventate, sia al di fuori che all’interno di un contesto musicale, non sono una novità, come i fan dei francesi Magma ben sanno. È questo lo scenario in cui si cala Massimo Giuntoli col suo “F.I.T.”, album in cui la voce è assoluta protagonista con risultati a mio avviso impressionanti. La cosa non deve stupire, data la caratura di un artista la cui definizione di “poliedrico” è probabilmente l’unica possibile.
F.I.T.” (Found In Translation) è basato su testi scritti in una lingua (in varie lingue, in realtà) parlata in una regione immaginaria chiamata “Molkaya”, della quale non esistono immagini e il cui territorio ha un’estensione variabile dipendente dall’umore degli abitanti, suddivisi in cinque popolazioni aventi diversi usi e costumi riassunti nell’apposita pagina web raggiungibile dal sito di Giuntoli e in un libro di racconti da egli scritto. Tra le varie bizzarrie, le principali attività dei molkayani consistono nel costruire aeroplani di carta capaci di evoluzioni inspiegabili, svolgere lavori e faccende quotidiane adoperando vari tipi di “inutensili” e osservare da un punto specifico del proprio territorio i pianeti Gong e Kobaïa nonché l’asteroide 3834 Zappafrank (questo realmente esistente e dedicato dal suo scopritore al compositore americano).
Arriviamo finalmente alla parte strettamente musicale di “F.I.T.”, il cui riferimento principale è senz’altro il Canterbury sound più bizzarro. Lo spettro dei Gong vaga per tutto il disco, influenzando però la musica di Giuntoli in maniera più che altro indiretta. Nel disco non sono presenti percussioni e la struttura ritmica è affidata agli arrangiamenti suonati dall’autore alle tastiere e all’harmonium. I brani hanno durata variabile, dai due minuti e mezzo di “Si Landari Barigodà” ai quasi ventotto della monumentale “Dan Rhanda Wey”, vero e proprio viaggio sonoro e mentale nella lingua e nelle atmosfere molkayane. Nelle composizioni è difficile, se non impossibile, afferrare uno schema fatto di consuete strofe e ritornelli. L’ascolto migliore difatti prevede il lasciarsi andare alle numerose atmosfere che Giuntoli assembla alla perfezione. Queste passano attraverso momenti allegri e frenetici, oppure carichi di tensione, epici, malinconici, fiabeschi, sinistri o dissonanti. I cambi di tempo abbondano e si susseguono spesso in maniera inaspettata per pochi attimi dando l’impressione di un approccio “free” a tutto il lavoro, che immagino invece essere frutto di un meticoloso processo di scrittura. Le parti vocali sono ovviamente il cuore dell’album e per quanto mi riguarda sono uno degli esempi più rappresentativi di “voce-strumento” che abbia mai sentito. Ciò che apprezzo, inoltre, è l’assoluta integrazione con le bellissime parti strumentali, ricche e corpose e sviluppate in un turbinio di organi, piani elettrici e harmonium, densamente stratificate ad accompagnare le litanie e le declamazioni vocali. La durata di un’ora e la mancanza di punti di riferimento precisi nella struttura dei brani potrebbero rendere pesante l’ascolto, ma questo è facilmente evitabile se si riesce ad entrare nello spirito del lavoro. In fondo è sufficiente immaginare di fare un viaggio in Molkaya per osservare gli abitanti nelle loro attività quotidiane. Con lo spirito giusto e con una certa dose di immaginazione, non dovrebbe essere difficile.

Nicola Sulas (Arlequins)

 

 

… conosco la musica di Massimo Giuntoli da parecchio tempo (e lui personalmente da un po’ meno tempo) ma ogni volta che mi arriva voce di un suo nuovo progetto sono sempre sicuro che si tratti di qualcosa di “speciale” … non lo scrivo qui per piaggeria (sarebbe troppo facile) ma quando mi trovo al cospetto sonoro di un suo lavoro provo una duplice sensazione di ammirazione e rabbia … ammirazione perché credo che Massimo sia un vero talento musicale meritevole delle migliori attenzioni della “musica intelligente” planetaria … rabbia perché non gli è stato ancora riconosciuto a livello internazionale lo status che merita … capisco che il suo lavoro sia talmente ricco e colto da non arrendersi ad una routine commerciale per accalappiare pubblico “ascolta e getta”, ma il mio personale rammarico principale è che sono convinto che – per la legge dei grandi numeri – se questa musica fosse adeguatamente proposta, fosse finalmente suonata davanti ad un pubblico e fosse quindi ascoltata, un considerevole numero di appassionati di musiche creative e senza compromessi scoprirebbero e sicuramente sposerebbero la “missione” culturale del suo autore, magari acquistando proprio “F.I.T.” (o anche tutti i lavori precedenti peraltro) contribuendo a mantenere attivo questo straordinario laboratorio di musiche parallele ma sostanziali (che qui volutamente non descrivo nei dettagli perché mi auguro che qualcuno voglia scoprirle ricercandole dove possibile)
… chapeau Massimo, chapeau!!”

Archivista (La Caverna Dei Veri Nostalgici) 11/09/2021

 

 

MASSIMO GIUNTOLI hat auf Molkaya Rec F.I.T. (DNN 028 C / MR 004) mit herausgegeben, wie auch schon seine Gertrude-Stein-Songs “Tender Buttons“. In der Welt des mit Eloisa Manera als Hobo, mit Esther Flückinger als Harpsy Duet, mit Emilio Galante im Altrock Chamber Quartet, mit Silvia Cignoli als U-Gene und mit dem Artchipel Orchestra verbundenen Pianisten sind Poesie und Robert Wyatt das Höchste. Dazu schwärmt er in den Projekten “Vox Populi“ und “Any Voice“ für Stimmen und Sprachen. Ihr kennt Molkayanisch nicht? Es erklingt hier, auch ausgemalt von 7 Künstler*n in 7 phantastischen Gemälden, als “Found in Translation“ in 7 Parts: ‘Nehigon Lohl’, ‘Dan Rhanda Wey’, ‘Tabawa Gawama’, ‘Tamaji Gol’, ‘Shayn Bayn’, ‘Wral Ni Mor’, ‘Si Landari Barigodà’. Prächtig orchestriert und rhythmisiert mit orgelnden Prog-Keys, Harmonium & Glockenspiel, evoziert die Manier,
wie Giuntoli sein Bon Bari Bon Gari Bow / Bow Bari Bon Gari Gon mit hellem, schwungvollem Timbre vorträgt, die spezielle Kunstliedhaftigkeit, die man vom R.I.O.-Artrock her kennt: 5 UU’s, Thinking Plague, Cheer Accident… Das Narrativ liegt, nicht anders als wenn’s Javanisch, Kobaïanisch oder sonstwas wäre, im lyrisch schwebenden oder mit scattendem Staccato dramatisch beschleunigten Duktus. Von Hunden verjagt, spottet unser Spielmann den Molkayan Chatterers mit einem grotesken Abschiedswalzerchen.

Rigobert Dittmann (Bad Alchemy 114)

 

 

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